di Claudia Rocchi
Il teatro di narrazione di Marco Paolini (1956) è sensibile a storie umane a confronto con temi civili, con crisi e trasformazioni del pianeta che si ribella quando maltrattato, che crede nella scienza come spinta in avanti, pure divisoria più che rassicurante (Itis Galileo, Bonci 2011). Argomenti, scienza e presente, che tornano a sollecitare questo narratore, attore, autore, ideatore. Ne racconta nella novità teatrale Darwin, Nevada, con cui si ripresenta al Bonci di Cesena, questa sera alle 20.30, fino a domenica 9 marzo ore 16. In veste di narratore, Paolini riafferma l'importanza del pensiero scientifico attraverso la figura del gigante britannico Charles Darwin (1809-1882) naturalista, biologo, evoluzionista, riferimento di un pensiero critico connesso a questo presente. Progetto importante che ha raggiunto il palcoscenico 5 anni dopo l'idea embrionale, è una coproduzione tra Piccolo di Milano, Stabile di Bolzano, Ert Emilia-Romagna, di eco internazionale. Con l'attore veneto, sul palco anche gli interpreti Clara Bortolotti, Cecilia Fabris, Stefano Moretti, Stella Piccioni; insieme sviluppano un testo costruito con il supporto di un comitato scientifico con Niles Eldredge (1943, paleontologo statunitense, coautore della teoria degli equilibri punteggiati); con il britannico James Moore (1947, docente, ricercatore a Cambridge, che ha scritto a lungo di Darwin); con Telmo Pievani (1970, filosofo evoluzionista); con l'idea registica dello
scozzese Matthew Lenton (a Cesena i suoi 1984 di Orwell nel 2018, e La metamorfosi di Kafka nel 2021).
Paolini, quale esigenza le ha sollecitato il bisogno di tornare alla scienza e a Charles Darwin?
«Dopo Galileo mi era rimasta curiosità e voglia di raccontare un'altra storia di scienza; la figura del padre della teoria dell'evoluzione della specie mi è parsa interessante e giusta. Cercando però di ripercorrere la sua ricerca non in modo scolastico, ma con volontà di raccontare una storia che mettesse al centro il rapporto tra un uomo e la genesi di una idea scabrosa, legata al periodo giovanile di Darwin, contenuta nei suoi taccuini».
Perché la definisce scabrosa?
«Perché il giovane Darwin, dopo aver raccolto informazioni viaggiando, sente che l'idea scientifica che sta elaborando non verrebbe accolta dalla sua comunità, perché metterebbe in discussione fondamenti di un pensiero assodato, per aprire alla nuova biologia. Disciplina
questa dove elementi vitali, compresi gli umani, attingono anche da esseri viventi inferiori, come vermi a crostacei. Un pensiero che contrastava con l'etica e la filosofia diffuse».
Al di là della teoria rivoluzionaria, in che modo pone al centro di questo lavoro il coraggio di Darwin?
«La modernità di Darwin sta nel coraggio di cambiare idea in maniera radicale, anche nella comunità cui apparteneva, applicando per oltre vent'anni un metodo scientifico, ma con atteggiamento laico; la laicità è messa a dura prova ancora oggi, i pensieri dominanti sono tanti e ogni comunità, gruppo, tribù, abbraccia o si identifica in una delle narrazioni ma con modalità chiusa, senza volersi mettere in discussione. In questo senso Charles Darwin è per me simile a un antieroe, perfetto per una storia. Non è una icona da mettere su una maglietta, ma esorta a tacere, a studiare prima di parlare. Dagli appunti sui taccuini alla pubblicazione del suo L'origine delle specie, lasciò passare 22 anni di travaglio di dubbi».
E per allacciarvi ai vent'anni di travaglio interiore che vi collegate alla cronaca del furto nel 2001 dei taccuini di Darwin, e al ritrovamento nel giorno di Pasqua del 2022?
«Il furto e il ritrovamento ci sono serviti da pretesto narrativo che ci legasse al presente, a piccole storie quotidiane di sentimenti, di relazioni tra persone, come le intende Jacques Le Goff (1924-2014, "Il quotidiano nell'occidente medievale" ndr). Con invenzione uniamo i due fatti a un altro accadimento del settembre 2023, una pioggia torrenziale caduta al Burning man festival in Nevada, che ha trasformato il deserto in un pantano. Così Darwin diventa lo scienziato a cui facciamo ricorso per riflettere su una crisi attuale che sta affliggendo il nostro mondo. La location Darwin del titolo esiste davvero, ci è stata ispirata da un felice cortocircuito; sia io, che Pievani e Moore, siamo passati da quel luogo nei nostri vagabondaggi americani. Immaginiamo perciò che due ragazze in fuga in camper dal diluvio del Burning fest travolgano un uomo. Da lì i personaggi intrecciano le loro esistenze, in un racconto di migrazione delle specie e attorno al pensiero scientifico di Darwin, che ci dice che l'adattamento sarà feroce».
Perché un camper in scena?
«È una scelta poetica estetica di Matthew Lenton che ho accolto subito, avendo io un grande feeling con questo regista e autore, ma non è metafora di altro. E un'immagine che accompagna molto bene questa storia, un'ambientazione western, una storia di frontiera, dove tutto è iperrealistico, quasi pulp, come un film di Tarantino o dei fratelli Coen».
Sabato alle 18 incontro con Paolini e compagnia nel foyer.
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